Recensione di La lista degli stronzi, di John Niven

Qualche tempo fa un giovane migrante del Gambia si è tolto la vita nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino.

Due settimane prima aveva subìto una brutale aggressione da tre balordi molto italiani nel pieno centro di Ventimiglia.
Il video del violento pestaggio girato da un testimone era diventato virale ed era stato condiviso da tutti i mezzi di informazione.
Gli aggressori se l’erano cavata con una denuncia a piede libero, il giovane gambiano, immigrato irregolare, con un decreto di espulsione che, in uno stato di profonda prostrazione e abbandono, lo ha portato all’epilogo che abbiamo visto.

È a casi come questi che John Niven si è ispirato per “La lista degli stronzi”, romanzo ambientato negli Stati Uniti diventati una distopia grottesca alla cui guida vi è la famiglia Trump, artefice e simbolo dell’incattivimento della società odierna.

Una società guidata da aizza popoli che dal nulla creano nemico per guadagnare consenso: neri, ebrei, ispanici, asiatici o, guardando ai nostri confini, africani, preferibilmente detti clandestini o extracomunitari.

Una società in cui i diritti delle donne vengono via via negati, come oggi succede in Polonia con l’aborto, nella sedicente difesa della famiglia tradizionale.

Una società in cui sbandierare le virtù in pubblico, tenendo bene nascosti gli inconfessabili vizi privati.

Una società in cui la solidarietà è inghiottita dalla sopraffazione dell’altro in un vortice senza speranza.

Il grandissimo film di Gabriele Salvatores, Mediterraneo, si concludeva con la memorabile frase del Sergente Lorusso:
“Avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice”.

Lo stesso vale per La lista degli stronzi, che narrativamente estremizza questa presa di posizione rifiutando in modo netto un mondo che va alla deriva e indicando, con il tratto ironico e cinico di Niven, la necessità di un urgente cambiamento.