Nel 2017, all’indomani dell’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, un giornalista della CNN tentò di rivolgere una domanda al neopresidente. Poco tempo prima la CNN aveva dedicato ampio spazio a un rapporto, la cui attendibilità era stata certificata dall’Fbi, sull’interesse russo a condizionare le elezioni americane in favore di Trump attraverso spregiudicate campagne di propaganda sui social network.
Al giornalista della CNN Trump non diede la possibilità di parola, tacciandolo pubblicamente di diffondere fake news.
Ribaltando il rapporto tra giornalismo e potere, il neo presidente screditava l’intera categoria dei giornalisti. In questo modo l’informazione giornalistica veniva degradata alla stregua delle notizie false, delle bufale complottiste che vivono nel web alle quali Trump stesso, durate il suo mandato, diede grandissima visibilità sui propri profili social in un crescendo di mistificazioni che portarono alla sua estromissione da Twitter, Facebook e Instagram.
Ma siamo sicuri che la definizione di fake news sia adatta a identificare un fenomeno sempre più pervasivo e difficile da riconoscere?
Valentina Petrini pensa proprio di no, dichiarandolo già dal titolo del suo saggio intitolato “Non chiamatele fake news”, edito da Chiarelettere.
L’autrice, che allo smascheramento delle bufale ha dedicato anche un programma tv, lo dimostra prendendo in esame vari casi che l’hanno coinvolta sia in prima persona, sia nel ruolo di fact checker.
Casi che vanno dall’inesistente pericolo di invasione dei migranti, propalato da anni dalla cosiddetta “Bestia”, il team che cura la comunicazione social di Salvini; all’inerzia politica che ha ostacolato la messa in sicurezza dell’Ilva di Taranto, anteponendo l’interesse economico alla tutela della salute dei cittadini. O ancora, dalla presunta creazione del virus Covid19 nei laboratori di Wuhan, fino al costante negazionismo dell’evidente crisi climatica.
Che cosa hanno in comune tutti questi esempi? Che non sono “semplici” fake news, bensì vere e proprie campagne di disinformazione online create per condizionare l’opinione pubblica.
Campagne di disinformazione attivate da gruppi riconducibili a partiti politici o lobby economiche, che mescolano elementi verosimili o del tutto falsi con altri veri che ne accrescono l’attendibilità. Con il risultato che si diffondono a macchia d’olio sfruttando la scarsa attenzione degli utenti in rete e l’attrattività degli argomenti polarizzanti.
A ciò si aggiunge che in questi anni la maggior parte delle piattaforme tecnologiche tra cui Google, Facebook, WhatsApp hanno fatto decisamente molto poco per limitare la diffusione delle bufale online o ci hanno anche lucrato attraverso la vendita di spazi pubblicitari.
Su piattaforme di messaggistica istantanea come WhatsApp e Telegram, inoltre, è praticamente impossibile intercettare messaggi a contenuto disinformativo a causa della tecnologia end to end con cui sono criptate le conversazioni a tutela della privacy degli utenti.
Conoscere come si diffonde la disinformazione in rete, sviluppare degli anticorpi per contrastare l’infodemia in corso è necessario e urgente, perché la posta in gioco è il diritto costituzionale dei cittadini ad essere informati e non usati a fini manipolativi.
Ben venga, quindi, un libro come quello di Valentina Petrini perché è anche grazie alla sensibilizzazione su questi temi che si forniscono nuovi strumenti critici alla società.