Recensione Vite che non sono la mia, di Emmanuel Carrère

Alla fine del 2004 Emmanuel Carrère si trovava in Sri Lanka con la sua famiglia per trascorrere le feste nalizie al mare cristallino del Paese asiatico.

Come lui, migliaia di turisti da ogni parte del mondo. Nella memoria collettiva, quell’anno si ricorda tristemente perché si verificò uno dei più grandi maremoti della storia recente.

L’intero sud est asiatico venne investito da uno tsunami di proporzioni gigantesche che spazzò via decine di villaggi sulla costa e provocò la morte di 250 mila persone.

Carrère e la sua famiglia si salvarono solo perché alloggiavano in un albergo riparato. Una coppia di turisti francesi che avevano conosciuto nell’hotel, invece, fu meno fortunata.

La loro piccola figlia ed il nonno persero la vita perché al verificarsi del maremoto si trovavano in spiaggia, ignari di quello che stava per accadere.

In quei giorni convulsi, Carrère e la sua compagna stettero accanto alla coppia aiutandola nella ricerca della salma della sua bambina che per ragioni sanitarie era stata trasportata in altre città.

Negli stessi giorni del maremoto in Asia, dall’altra parte del mondo, una giovane donna dal nome Juliette, cognata dello scrittore, veniva travolta dallo tsunami di una malattia inguaribile, un tumore, che da lì a poco avrebbe spezzato la sua giovane vita.

“Vite che non sono la mia” è un racconto sulla perdita, di un figlio, di una madre, sul vuoto che lasciano, sul dramma della malattia e sulla rielaborazione del dolore delle persone che restano.

Carrère intuisce che bisogna raccontare queste vite per omaggiarle, capirle e anche per capirsi.

Perché la perdita è l’altra faccia della medaglia dell’esistenza e la scrittura può contribuire a comprenderla e a lenire il vuoto dell’assenza.

Avete letto questo libro? Vi aspetto con piacere nei commenti!