Recensione di Ferragosto, di Enrico Franceschini

Tre sono gli assi lungo i quali si sviluppa “Ferragosto”, romanzo giallo di Enrico Franceschini: l’amicizia tra il protagonista, Mura, e i suoi compagni di infanzia; la Romagna, dove è ambientata la narrazione; e poi, come ogni giallo che si rispetti, un delitto, che in questo caso è intrecciato con la Storia e il mistero dell’oro di Dongo. Che cos’è quest’ultimo? È il bottino di ori e gioielli, di cui si sono parzialmente perse le tracce, che venne sequestrato a Mussolini in fuga dall’Italia camuffato poco proditoriamente da soldato tedesco.

Ferragosto è un romanzo leggero ma non superficiale, dallo stile fluido, che unisce momenti di simpatica vita dei personaggi con la ricerca della soluzione del giallo. Nel romanzo emerge con forza il legame dell’autore – alter ego di Mura? – con la terra di Romagna e i suoi affetti più cari, in primis gli amici di sempre, porto sicuro della vita appassionata e disincantata del protagonista, giornalista in pensione con intatto il gusto per la notizia e per le donne.

Il contraltare di Ferragosto è, a mio avviso, una rappresentazione un po’ demodé della Romagna come la terra per antonomasia dell’estate, del divertimento e soprattutto delle innumerevoli avventure amorose, come da rivendicato e celebrato primato territoriale.
Sulla stessa scia si collocano Mura e gli amici suoi, un po’ monicelliani, un po’ goliardi e un bel po’ morti di figa, per dirla con il loro registro linguistico.

È questo sfondo, a mio parere, che indebolisce la lettura di un romanzo che potrebbe essere più godibile se meno legato a canoni oggi un po’ obsoleti, ma che resta comunque una lettura da portare con sé durante queste vacanze estive.