Recensione di Accabadora, di Michela Murgia

 

Nei primi anni del Duemila le drammatiche vicende di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro portarono per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica e della politica italiana l’apertura del dibattito sul fine vita. Da allora, anche grazie a casi più recenti come quello di Dj Fabo, il diritto all’autodeterminazione e il rifiuto dell’accanimento terapeutico sono assurti tra i temi principali di discussione politica, senza tuttavia trovare una soluzione ai quesiti urgenti che hanno posto.  

Ad oggi, prese di posizione ideologiche hanno infatti impedito al Paese di dotarsi di una legislazione che affronti sistematicamente l’argomento. In questo modo, si è demandato alle aule giudiziarie il compito di pronunciarsi sui casi specifici, mentre la Politica si è di fatto esautorata dalle proprie responsabilità.  

Michela Murgia, Premio Campiello 2010, pubblica “Accabadora” proprio negli anni di maggiore attenzione verso quei temi. La scrittrice tratta letterariamente il fine vita ambientando il romanzo nella Sardegna degli anni cinquanta, dove il rapporto tra vita e morte è codificato in un sistema che affianca alle credenze popolari e religiose la misericordia terrena della Accabadora.

Chi è questa figura? È colei che, secondo la leggenda, su richiesta dei familiari o del malato si incaricava di portare la morte alle persone in condizioni di malattia tale da richiederla. Una figura che si muoveva lungo i binari della compassione e della pratica saggezza popolare, adempiendo a un atto sociale: porre fine alle sofferenze di una persona senza possibilità di guarigione.

L’Accabadora di Michela Murgia è un espediente narrativo che pone al centro la riflessione sul diritto ad una morte dignitosa attraverso l’incontro tra Bonaria Urrai, la sarta del paese di Soreni, e la sua “fill’e anima” Maria Listru, la vispa bambina che, secondo una consuetudine diffusa, Bonaria prende come figlia adottiva donandole istruzione e sottraendola alla povertà.

Maria cresce ignorando per anni quello che tutto il paese sa della madre ma di cui nessuno osa parlare per una forma di silenzioso rispetto. Sarà solo il caso a fare conoscere a Maria l’opera di Bonaria, suscitando il suo sconcerto e poi l’allontanamento.

Nonostante ciò, il monito di Bonaria di “non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo” resterà impresso nella mente di Maria, e quando anni dopo si troverà al capezzale della vecchia Urrai sospesa tra la vita e la morte in un epilogo senza fine, capirà finalmente il senso delle sue parole.