Alle soglie del Duemila centinaia di organizzazioni provenienti da ogni parte del mondo si erano raccolte in una piattaforma comune per avanzare le proprie legittime rivendicazioni ai “grandi della Terra”.
Si trattava di un movimento variegato e dalle mille anime che, parafrasando una canzone di Jovanotti di quegli anni, “passava da Che Guevara e arrivava fino a Madre Teresa”, promuovendo nuove istanze sociali, economiche e ambientali. Un altro mondo è possibile, dicevano i suoi portavoce, con una prospettiva ben differente da quella che abbiamo conosciuto successivamente.
La colonna sonora di quel periodo era rappresentata da Manu Chao e dal suo album Clandestino; la “bibbia” del movimento era No Logo, scritto da una giovane giornalista canadese di nome Naomi Klein.
Accanto a questo movimento pulito e colorato c’era un’ala di contestazione dura, caratterizzata da frange difficilmente identificabili, non inclini al dialogo, facinorosi convinti di fare la rivoluzione ribaltando un cassonetto della spazzatura o sfasciando il vetro di una banca. Poche centinaia di individui che con la loro furia sarebbero tornate utili per mettere in ombra un intero movimento pacifista globale e la sua significativa spinta. Politicamente miopi perché inconsapevoli che la degenerazione nella violenza avrebbe soltanto indebolito la posizione di tutti. O semplicemente indifferenti a questo tipo di considerazioni, obnubilati dal ribellismo di chi sa che non conta e mai conterà. Sicuramente comodi.
Poi c’erano le Istituzioni, i rappresentanti di Stato, gli apparati di pubblica sicurezza, le grandi organizzazioni transnazionali come il Fondo Monetario Internazionale, il WTO, politicamente sorde alle istanze sociali e serene nel loro atteggiamento da Marchese del Grillo così ben immortalato nell’omonimo film da Alberto Sordi.
Fu in questo contesto che nel 2001 si tenne il G8 di Genova, il forum degli otto governi dei Paesi più potenti della Terra, l’occasione che avrebbe potuto mostrare al mondo intero la carica delle spinte progressiste della società globale e, invece, si trasformò nella sua tomba.
Amnesty International definì i fatti che sconvolsero il G8 “la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda guerra mondiale”, riferendosi in particolare alle violenze inaudite della forze di polizia ai danni dei manifestanti (300 mila persone) in via Tolemaide, nella Scuola Diaz, nella caserma di Bolzaneto, mentre imprendibili e mai identificati gruppi di Black Block mettevano a ferro e a fuoco la città. Violenze per cui nessuno ha pagato.
Di tutto questo, parla bene e approfonditamente Giovanni Riva nel suo libro “Genova, vent’anni dopo” edito da Peoplepub.
Senza fare sconti a nessuno, compresi gli organizzatori del Genoa Social Forum e i movimenti antagonisti dell’epoca, l’autore analizza le cause del disastro di un evento che fu un fallimento sotto molteplici punti di vista: politico, di gestione della pubblica sicurezza, di dialogo tra le parti, di rappresentazione mediatica.
E che a distanza di più di vent’anni resta una ferita ancora aperta.