Ci sono segreti legittimi che servono a tutelare i cittadini di uno Stato, e segreti illegittimi che, invece, nascondono le nefandezze di chi detiene le redini del potere.
La definizione di giornalismo come “cane da guardia pubblico” fa leva su questo secondo aspetto e sull’importanza dell’informazione come baluardo delle libertà di tutte le società democratiche.
“Il potere segreto” di Stefania Maurizi è una ricostruzione fedele del processo al giornalismo impersonificato nella figura di Julian Assange.
Dopo sette anni di asilo politico trascorsi nell’ambasciata dell’Ecuador, l’attivista australiano è detenuto dal 2019 nel Regno Unito in attesa della conclusione del processo di estradizione avviato dagli Stati Uniti, dove rischia una condanna a 175 anni di carcere.
La giustizia americana contesta ad Assange la pubblicazione nel 2010 su Wikileaks di decine di migliaia di documenti riservati ma che, per il loro contenuto esplosivo, sono stati giustamente ritenuti dall’ attivista australiano di pubblico interesse.
Documenti che, tra gli altri, hanno rivelato all’opinione pubblica i crimini di guerra dei soldati americani sui civili iracheni durante la guerra in Iraq; gli abusi e le torture nelle tristementi famose prigioni di Abu Ghraib; il programma di spionaggio dell’NSA ai danni dei cittadini americani o, ancora, i sequestri di persona di sospetti terroristi eseguiti dalla CIA in paesi stranieri. Famoso è il caso di Abu Omar, rapito a Milano dai servizi segreti americani con la complicità di quelli italiani, per il quale sono stati condannati ventitre agenti della CIA e due agenti del SISMI.
Anche grazie alla pubblicazione di questi documenti è stato possibile fare luce su temi che sarebbero rimasti celati all’opinione pubblica ma che condizionano anche il nostro quotidiano.
La giornalista firma un’inchiesta sincera, appassionata e prende una posizione ferma, a sostegno di una persona che sta pagando a caro prezzo la difesa di un giornalismo che sia davvero il “cane da guardia dal potere” e non ne diventi invece, come nell’icastica battuta di Marco Travaglio, il suo “cane da compagnia. O da riporto”.