Recensione Stranieri per sempre, di Giuseppe Civati

Alcuni anni fa, durante un periodo in Inghilterra, divenni amico di un ragazzo di origini irachene che, dopo mille peripezie, si era stabilito nel Regno Unito. Lì aveva trovato lavoro in un fast food di proprietà di un connazionale.

Quest’ultimo, arrivato in Inghilterra molto tempo prima, aveva iniziato a lavorare vendendo panini su un camioncino e dopo anni di sacrifici era riuscito ad aprire ben tre piccoli esercizi nella città.

Una sera mentre bevevamo una birra in un locale e mi raccontava la sua storia che, nonostante le difficoltà affrontate, mi sembrava di piena realizzazione personale, gli chiesi come si trovasse in Inghilterra.
Lui mi guardò negli occhi e mi disse letteralmente: “I hate this country”. In quattro parole aveva riassunto la sua condizione e il risentimento che derivava dalla consapevolezza di restare comunque un cittadino di serie b in un Paese dal passato colonialista nel quale era impossibile integrarsi.

In anni recenti abbiamo visto le rivolte scoppiate nelle banlieue parigine, quelle in Belgio e in Germania, fuoco che covava sotto la cenere, dove pure le peggiori idee hanno potuto attecchire laddove, ancora una volta, persiste l’emarginazione di chi è straniero per sempre, causando di converso l’avanzata di partiti xenofobi e razzisti.

Come nel resto d’Europa, anche in Italia il tema dell’immigrazione è diventato il martello ideologico dell’estrema destra leghista e postfascista, accomunate nella strategia di individuare un nemico verso cui dirottare l’attenzione per accaparrare facili voti.

Quella dei cosiddetti patrioti nostrani è una costante campagna di denigrazione del diverso che parla alla pancia della società, ne sovverte i valori di solidarietà, riduce a slogan la complessità del mondo, ignora deliberatamente le colpe e le responsabilità storiche dei Paesi “civili” nei confronti di quelli del Terzo mondo; non affronta, perché incapace, il problema dell’emigrazione di centomila giovani all’anno che fuggono dall’Italia perché non possono realizzarsi nel proprio Paese. Nel loro caso, la logica del doppio standard li definisce, però, “cervelli in fuga”.

Ignorano, i presunti difensori dell’italianità, concetto che di per sé è una barzelletta in un Paese da secoli crocevia di popoli dell’area del Mediterraneo, le guerre, le emergenze politiche, i cambiamenti climatici, arroccati come sono nella salvaguardia dei loro piccoli privilegi.

Agitano spauracchi complottisti come l’esistenza di fantomatici Piani Soros e Piani Kalergi, parlano senza senso del pudore di sostituzione etnica, manganello ideologico, sconcertante doverlo scrivere nel 2024, dei nazisti di Hitler. Sono dimentichi di quando gli straccioni erano loro, come ampiamente documenta la storia dell’emigrazione italiana.

In ogni epoca e luogo la normalizzazione del cattivismo ha avuto come effetto il mantenimento dello status quo da una parte, la desensibilizzazione della società dall’altro, con gli esiti nefasti che tutti conosciamo. In gioco c’è l’essenza stessa dell’uomo. Restiamo umani.